Friday, January 19, 2007

La ricerca della felicità***

All’inizio degli anni Ottanta a San Francisco Chris Gardner (Will Smith) lavora come rappresentante di macchinari medici, riuscendo a stento a sbarcare il lunario. Quando la moglie insoddisfatta abbandona lui ed il figlio per andare a cercare fortuna a New York, Chris è appena riuscito a farsi accettare come stagista non retribuito presso una società di consulenza finanziaria.Rimasto solo ad allevare un bambino di cinque anni (interpretato dal figlio di Smith), senza stipendio e senza più un appartamento, l’uomo non si arrende: di notte cerca una sistemazione nei ricoveri per i senza tetto o nei bagni pubblici, di giorno indossa il suo vestito migliore cercando di raccogliere tutta la forza che ha dentro per far vedere chi è. E forse è proprio vero il detto che “chi la dura la vince”.Rivoluzione totale per Gabriele Muccino, alla sua prima esperienza americana: cambia la cornice, cambia l’approccio nel dirigere una star internazionale come Will Smith e cambia soprattutto lo stile a cui il regista romano ci aveva abituati. Non più infatti famiglie borghesi, dubbi adolescenziali, trentenni rimasti bambini, separazioni o matrimoni in crisi; non più dialoghi urlati, ritmo sincopato e musica a tutto spiano. Ora è tempo di raccontare una storia drammatica – per altro vera - con la solidità e la delicatezza che più gli si addice. La storia di un padre e di un figlio che ricercano la felicità attraverso tutta una serie di difficoltà che annientano fin lo spettatore, sino a condurlo a tirare un sospiro di sollievo.Mai zuccheroso, consolatorio o patetico, il film si basa su una sceneggiatura ben scritta e su una narrazione che privilegia il realismo e la naturalezza. Pellicola assolutamente riuscita quindi per Muccino, che mette in mostra le sue grandi potenzialità e che nel panorama americano è ad oggi apprezzatissimo. Ad aiutarlo nell’operazione ovviamente la bravura di Will Smith, controllato, acuto, signorile e credibile al massimo. www.localport.it/eventi/cinema/

Il grande capo ***

Chi avrebbe mai creduto che il re del Dogma, l'inventore ed ideatore di un nuovo modo d'intendere e percepire l'immagine scegliesse di lanciarsi nell'ignota avventura della commedia. A cinquant'anni, con un passato cinematografico alle spalle di riconosciuta autorialità, Lars Von Trier stupisce il pubblico, e forse in parte anche se stesso, lanciandosi nell'incognita di Il grande capo, decidendo che, dopo aver scavato a fondo all'interno di una umanità gretta, meschina ed impaurita, era giunto il momento di farla anche ridere attraverso i suoi stessi difetti. Ambientata all'interno di una ditta informatica, la vicenda mette in evidenza tutti i meccanismi e gli eccessi di un microcosmo lavorativo dall'inquietante profilo umano. Tra tutti si staglia la figura del grande capo, appunto, elemento che incarna la finzione e la rappresentazione di un particolare capro espiatorio su cui tutti gli impiegati riversano la loro necessità di essere amati ed accettati. Il proprietario della ditta, per timore di riversare su di se i malumori e le antipatie dei suoi impiegati, inventa la figura di un grande capo che, a causa di un importante contratto con degli islandesi, viene momentaneamente interpretato da un attore fallito. Ed è proprio in questo punto che s'innesca il meccanismo comico di tutto il film, mettendo in ridicolo i tic, le idiosincrasie degli attori, i loro metodi ed i guru che li professano. Il tutto porta ad un film particolarmente arguto e dal ritmo incalzante, il cui senso comico si deve non a delle gag sporadiche ma a situazioni costruite sull'illogico ed il surreale, non perdendo di vista alcune tra le più importanti commedie hollywoodiane firmate Woody Allen. Certo è che per ottenere un effetto di questa portata Von Trier ha rinunciato all'applicazione delle regole del Dogma, affidandosi in questo caso alla creatività dell'Automavision, una nuova tecnica di ripresa che utilizza una camera fissa comandata da un computer che decide, piuttosto casualmente, cosa riprendere e come. Dunque Lars Von Trier non rinuncia comunque all'originalità ed all'eccentricità dell'immagine che, attraverso inquadrature tutt'altro che classiche, conferisce maggior personalità alla vicenda. E per finire, tanto per creare ancora più attenzione intorno a questa sua avventura, il regista danese ha indetto una specie di concorso tra gli spettatori, sfidandoli a trovare nel film una serie di lookey, ossia delle tracce attraverso le quali comporre un rebus. Si tratta di immagini od oggetti totalmente al di fuori del contesto del valore di 4.000. euro, che andranno a chi riuscirà a risolvere il rebus. Buona caccia.
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L'arte del sogno ****


Secondo Schopenauer "La vita e i sogni sono i fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare." Per Michel Gondry invece i sogni sono soprattutto le evoluzioni di una mente immacolata e creativa, capace di intervallare e sovrapporre il ritmo regolare o casuale di questa lettura. Dopo la parentesi americana, il regista di Eternal Sunshine torna in Francia per dare vita al suo film più autobiografico. Libero dalle costrizioni e dalle scelte stilistiche di un partner d'eccezione come Charlie Kaufman ( Il ladro d'orchidee, 2003), Gondry dimostra di saper gestire un film in tutte le sue fasi evolutive, imponendo uno stile personale e onestamente onirico capace di collocare la sua storia al di fuori di qualsiasi genere o cifra stilistica. Se con Eternal Sunshine aveva sfiorato atmosfere surreali, per realizzare L'arte del sogno si getta in esse senza alcun risparmio attingendo a piene mani dal un personale archivio. Utilizzando il suo alter ego Gael Garcìa Bernal (Stéphane), Gondry costruisce con una attenzione ed una cura artigianale un universo che vive e trova sfogo solo attraverso una continua osmosi tra realtà ed irrealtà, mentre grazie all'eterea figura di Charlotte Gainsbourg ( Stéphanie) prendono vita delle favole realizzate con ago e filo. La materia dei sogni è sempre stata una grande fonte d'ispirazione per l'attività cinematografica. Da Vanilla Sky (2001), Eyes Wide Shut (1999) a Mulholland Drive (2001) il gioco sogno/realtà ha rappresentato il fulcro intorno al quale si sono totalmente sviluppate le vicende. Eppure, nonostante David Lynch possa essere considerato come uno dei registi più visionari, Gondry affronta la materia con una freschezza ed un' innocenza assolutamente nuova per le strutture narrative conosciute fino a questo momento. Nella confusa vita di Stéphane, diviso tra l'amore per Stéphanie ed il terrore di non essere ricambiato, il sogno non raggiunge mai stati di oscura espressione delle proprie paure, nonostante in ballo ci sia anche l'aspetto distruttivo di una mente creativa. In Gondry l'incubo diventa terreno di gioco, dimostrazione delle proprie insicurezze attraverso un mondo fatto di cartone e pannolence cucito grossolanamente che tanto ricorda alcune animazioni russe. Per quanto riguarda il resto, tutto ci conduce verso immagini che mostrano le modalità di una mente che edifica fantasie. In questo caso il sogno è soprattutto un luogo dove correre a rifugiarsi. Un posto da dove osservare il mondo così come vorremmo che fosse. Una stanza dei giochi dove è possibile ridisegnare una realtà che confonde a seconda delle proprie necessità. Un sogno dal fascino rassicurante ma dalla vincolante attrattiva. Unica fonte d'inquietudine è la consapevolezza che il mondo onirico troppo spesso si sovrappone a quello reale, distorcendo la percezione della realtà e viziando la capacità d'azione.
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The Departed ****

Né vincitori, né vinti nella Boston sotto assedio di The Departed, ventesimo lungometraggio del maestro del Queens, Martin Scorsese che ci offre quasi due ore e mezza di tensione e adrenalina senza sbafature. I suoi "bravi ragazzi" stavolta hanno il volto acqua e sapone di Leonardo DiCaprio e Matt Damon e la mafia non è più quella italiana di New York ma quella irlandese di Boston. I due hanno i ruoli di Billy Costigan e Colin Sullivan: il primo, cresciuto nei bassifondi della città, viene arruolato nella polizia e poi infiltrato sotto copertura nella peggiore cosca mafiosa, il secondo lavora per la stessa organizzazione, solo che lo fa non dalla strada ma dai computer della squadra speciale investigativa che dovrebbe sgominarla. Entrambi sanno che l'altro c'è ma non sanno chi sia. Una situazione di semi-stallo, una partita a scacchi avvincente, che non può che risolversi nel sangue. E non perché sia il genere stesso a richiederlo, ma è la fonte, il cinema di Hong Kong, a non lasciare scampo ad americanismi e false celebrazioni. Alle spalle di The Departed c'è infatti Infernal Affairs, film di Andrew Lau e Siu Fai Mak del 2002, verso il quale tuttavia il film di Scorsese si colloca in una dimensione superiore a quella del remake. Un "newmake" si potrebbe definire The Departed quale opera che viva di vita propria grazie alla sceneggiatura limata di William Monahan (prima di ora solo Le Crociate), il tocco di Scorsese e l'interpretazione dei suoi protagonisti.
Lo spessore dei protagonisti, rappresentati in tutta la loro psicologia, trasforma il film in una tragedia umana prima di tutto. Un Jack Nicholson in stile Joker interpreta lo spietato boss Jack Costello, uno che cita Freud mentre gioca con una mano mozzata, che tortura Costigan per poi quasi trattarlo come suo figlioccio arrivando a fidarsi davvero dell'unico uomo che è lì per tradirlo. Si dipana un quadro di rapporti impossibili e di famiglie che non esistono. L'unico elemento femminile del film è la "strizzacervelli" della polizia, interpretata da Vera Farmiga (già vista in The Manchurian Candidate), che si trova ad avere una relazione sia con Costigan che con Sullivan. Per il resto The Departed è un racconto di uomini soli uniti da un telefono cellulare che rappresenta anch'esso un rischio. Costello è un padrino senza famiglia, entrato in un vortice dal quale, da vivi, non si esce più; Costigan è un volto senza nome, un file criptato nascosto in un piccolo ufficio della polizia di Boston e Sullivan è un falso, il miglior prodotto della società americana che la mala possa comprare. Vederli interagire è un gaudio ed è la forza stessa del film. Velocità di sviluppo e violenza diffusa manderanno in sollucchero i patiti di cinema "Far East" ma Scorsese riesce a completare la caratteristica critica alla modernità presente in quel cinema (e nel primo piano di un cellulare sporco di sangue), con i tratti somatici di un microcosmo decadente.
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Vincitore del premio oscar come miglior film e molti altri riconoscimenti:
http://www.mymovies.it/dizionario/premi.asp?id=35666

Apocalypto ****

Come al solito si riesce a parlare del niente e trascurare sempre la sostanza: ogni commento su Apocalypto riguarda la violenza e qualche errore di regia. Nessuno però si interroga sul significato del film. Innazitutto la pellicola non è un semplice action movie, ma presenta una serie di tematiche attualissime e profonde che evidedntemente sono troppo scomode per l'opinioe dominante. Uno dei primi spunti è quello riguardante la civiltà. La provocazione di Gibson è evidente: una civiltà che dimentica il valore della vita, una civiltà violenta, che ha perso ogni tipo di identità se non quella di mantenere il potere attraverso il terrore, è una civiltà destinanta al fallimento. Il tema del "terrore", ovvero la paura che sprigionano i capi Maya, è il vero strumento di potere tanto che il padre di Zampa di Giaguaro non vuole che contamini il suo villaggio. Ed è il terrore infatti ciò su cui punta il fondamentalismo ideologico di ispirazione islamica. La violeza e il male derivanti da questa situazione distruggono la vita e non per scherzo, infatti Gibson non vuole far finta che tale problema non esista ma anzi lo mostra senza paure, ipocrisie e morlismi. Questo è un primo contributo...per chi vuole prire il dibattito a presto!